Concorsi, campionati mondiali, riconoscimenti planetari, recensioni altisonanti, packaging abbagliante, alveolatura, artigianalità, sperimentazione, potrei continuare all’infinito.

Tante, troppe parole riferite a quello che ha assunto il titolo di “Re del Natale italiano“: il panettone.

Il dolce che un tempo rappresentava semplicemente una degna conclusione di un pranzo in famiglia è diventato il biglietto da visita di pastry chef, – e purtroppo non solo – che vogliono esprimere il loro talento indiscusso, facendo a gara a chi ce l’ha più alto, soffice, profumato e distintivo.

Si inizia sempre prima, ormai il Ferragosto è diventato l’anticamera delle festività natalizie. Quindi, già da settembre è doveroso prenotare la creazione del maestro pasticcere preferito, non sia mai, si rischi di non poterla gustare in tempo. E da li in poi, la strada è tutta in discesa.

Come fare la scelta giusta?

Il passaparola non basta più, occorre minimo una citazione da parte di blasonati critici o guide gastronomiche, meglio ancora la vincita di un campionato creato ad hoc. Ormai i confini regionali sono superati, serve almeno a livello nazionale o ancora meglio mondiale.

Se poi, gli ingredienti utilizzati sono un mistero e i nomi dei giudicanti non dicono nulla a nessuno, non importa. Ciò che conta è il titolo, la fascia, le acclamazioni commosse sui social, le foto del povero panettone tagliato a metà con l’alveolatura in bella mostra.

Ora, proviamo a fermarci e a riflettere sul senso delle nostre azioni. Magari, raccogliendo le idee, complice il silenzio e la meditazione, ci rendiamo conto che siamo noi consumatori a creare tutto questo bailamme e soprattutto ad alimentare una sorta di follia collettiva che ci vede coinvolti in sfide assurde a colpi di euro.

Questo Natale, io ho avuto la fortuna di poter riavvolgere il nastro, durante un pranzo di famiglia a casa di una cara amica in cui ero l’unica “intrusa”, alla fine del quale, il panettone ha riacquistato il suo senso.

Realizzato con pochi ingredienti di qualità, da Fabrizia Mura, una giovane donna che fa dolci per vera passione, al Central 1961, una piccola Gelateria e Pasticceria Artigianale, a Barumini, un paesino del Medio Campidano, è riuscito davvero a stupirmi.

Una confezione semplicissima, sicuramente non costosa, che non prometteva esaltazioni sensoriali per poi rimanere delusi come spesso accade, ma che svelava l’artigianalità del prodotto, e la mancanza di strategie di marketing. Un messaggio chiaro, – aprimi e vedrai – non ho bisogno di altro per rimanerti nella mente e farti vivere un vero coinvolgimento del palato.

Niente sapori chimici.

Ottimo burro.

Soffice e profumato, tanto che ti veniva voglia di affondare le dita al suo interno.

Glassa al pistacchio e gocce di cioccolato bianco, dello spessore ideale.

Crema al pistacchio perfetta, con la giusta sapidità e dolcezza.

Talmente buono, da assaggiare e poi continuare senza sensi di colpa.

Ecco, sto usando troppe parole, a questo panettone non servivano. Era solo da condividere con le persone che amiamo. Perché proprio questo esprimeva… Amore.

Ah, dimenticavo la cosa più importante… il prezzo: 25 euro, 24 per gli amici, a fronte di decine di euro per dei prodotti dichiarati artigianali, e per questo sparati ad altezze di costi inarrivabili per i consumatori medi. Come se poi fosse normale, soprattutto di questi tempi, spendere 50 euro e oltre per un solo panettone.

Mi sono chiesta: – Dove sta l’inganno, la differenza tra l’uno e gli altri? –

La risposta me l’ha data un amico, Roberto Peschiera – ex ispettore della Guida Michelin, – perché io non sono riuscita a trovarla:

“Spesso panettoni industriali – ravvivati – elegantemente rivestiti, firmati con etichette occhieggianti a prezzi da rapina”.

Da non dimenticare che risale a pochi giorni fa, la notizia che i Nas (il nucleo antisofisticazioni dei carabinieri) in occasione di controlli prenatalizi a livello nazionale, hanno sequestrato oltre 7 tonnellate di prodotti dolciari di vario genere. In particolare, 1.775 tra panettoni e pandori venduti come ottenuti da “lavorazione artigianale” ma che invece erano chiaramente industriali, provenienti da terzi, riconfezionati e in alcuni casi, con un’etichettatura mendace, attestante la produzione propria.

E così, la prossima volta che decidiamo di acquistarne uno, concentriamoci su altri elementi che vadano oltre la facciata, guardiamo da dove proviene, qual è il fine ultimo di chi lo produce e facciamo la scelta giusta.

Buone feste a tutti voi

Sara Sanna

Ho 49 anni e abito in Sardegna. Ho lavorato come tecnico del restauro archeologico prima, poi, come guida turistica e operatrice museale presso la "Fondazione Barumini Sistema Cultura" che si occupa della...

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