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In questi ultimi giorni ha destato scalpore l’interista sul Financial Times al Prof. Alberto Grandi studioso mantovano e storico dell’alimentazione nonchè docente all’università di Parma, sul tema dei falsi miti, delle fake news legate alla cucina italiana e dell’identità connesso al mondo dei sapori.

Dopo l’intervista, il professore è stato criticato dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini e dalla Coldiretti che sono scesi in campo in difesa della cucina italiana.

Il  libro di Alberto Grandi, docente di Storia delle imprese a Parma svela quanto marketing ci sia dietro lo strepitoso successo dell’industria gastronomica italiana.

I tantissimi prodotti tipici italiani, gran parte dei piatti e la stessa dieta mediterranea sono buonissimi, ma le leggende di storia e sapienza che li accompagnano sono invenzioni molto più recenti, scaturite dalla crisi industriale degli anni Settanta: è in quel momento che imprenditori e coltivatori italiani si alleano per inventare una presunta tradizione millenaria del nostro cibo e il conseguente storytelling per sostenerla.

Dove è nata la cucina italiana? “In Italia!” diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato… Prima di tutto perché l’Italia è rimasta un’espressione geografica fino a non molto tempo fa, e se è certo che gli abitanti del paese che noi oggi chiamiamo Italia hanno iniziato a nutrirsi molto tempo prima del 17 marzo 1861, è anche certo che quella che molti oggi chiamano “cucina italiana”, pur con tutte le cautele del caso, abbia visto la luce più o meno un secolo dopo quel fatidico 17 marzo.

Ho intervistato l’autore Alberto Grandi:

Qual è la storia del libro?

Il libro è nato perché ero stanco di come viene da sempre raccontata la storia della cucina italiana e quella dei prodotti tipici. Non mi piaceva questa tendenza a glorificare un passato, che in realtà è stato molto meno epico e interessante di quanto normalmente si dica. Gli italiani, fino a sessant’anni fa, hanno mangiato poco e male. Quelli che se lo potevano permettere, per mangiare bene, imitavano la cucina francese, non esaltavano di certo le tipicità italiane, che, del resto, non esistevano, se non in misura molto limitata.

Alcuni prodotti che sono diventati un must spesso hanno una denominazione d’origine inventata?

Si, molto spesso, anzi direi quasi sempre, le storie che si raccontano sulle origini dei nostri prodotti tipici sono inventate. A volte si tratta di origini completamente inventate, in altri casi le storie sono semplicemente un po’ aggiustate, a uso e consumo del marketing. 

Puoi citarmi qualche caso?

Gli esempi possono essere molti e non vorrei fare torto a nessuno. Sicuramente uno dei casi più elaborati è quello del lardo di Colonnata, le cui origini vengono addirittura fatte risalire all’antichità, per poi arrivare al Rinascimento, con Michelangelo come “testimonial”. Per non parlare del cioccolato di Modica, per il quale vengono addirittura scomodati gli Aztechi. Per quanto riguarda i prodotti cambiati, mi verrebbe da dire che tutti, chi più chi meno, hanno subito delle trasformazioni negli ultimi decenni, per adeguarsi ai gusti dei consumatori o alle nuove normative sanitarie e commerciali. Di certo, uno dei casi più clamorosi è quello del Parmigiano-Reggiano, ma anche del Grana Padano, che negli ultimi cinquant’anni sono completamente cambiati nella forma e nel gusto.

Oggi il consumatore compra una marca o un prodotto?

E’ difficile rispondere a questa domanda in modo generalizzato, chiaramente bisogna andare a vedere caso per caso. Di certo la proliferazione dei prodotti tipici certificati con i relativi disciplinari di produzione ha reso molto difficile distinguere le diverse marche all’interno della stessa denominazione e quindi il consumatore tende ad acquistare un prodotto: il pecorino romano, il prosciutto San Daniele, il culatello di Zibello, ecc. ecc., senza badare troppo al nome del produttore.

Il food è diventato solo marketing?

Diciamo che il marketing si è accorto da tempo che un cibo ci piace o meno non solo per il gusto che ha, ma soprattutto per ciò che rappresenta per noi. Nel determinare il gradimento di una pietanza intervengono diversi fattori sociali e culturali: a chi piace quel cibo? Dove lo possiamo gustare? Cosa sappiamo di come viene prodotto? Il marketing si incarica di costruire intorno al cibo le storie che rendono l’esperienza sensoriale più coinvolgente e più appagante. Ma è anche chiaro che quello che mangiamo deve quantomeno non essere sgradevole, altrimenti non c’è storytelling che tenga…

Pizze gourmet, panini gourmet…cosa c’è di vero?

Di vero c’è sicuramente il business, che a volte funziona e a volte meno. Alla fine credo che sia il mercato a stabilire l’autenticità di un prodotto o di una moda. Come diceva Oscar Wilde: “La tradizione è solo un’innovazione che ha avuto successo”

Come fare a capire se un prodotto è davvero doc/dop?

Io credo che in Italia il sistema dei consorzi in larga parte sia efficace per quanto riguarda i controlli e la certificazione di qualità. Purtroppo ogni tanto capita che qualche produttore senza scrupoli cerchi di aggirare le normative, ma nel complesso mi pare che ci si possa fidare. Diverso è il discorso sulla storia di questi prodotti, qui, come sapete, sono molto critico.

Per finire meglio la tradizione o l’innovazione nel food?

Le due cose possono convivere benissimo, nel mercato c’è spazio per tutti. Una volta appurato che i nostri nonni mangiavano cose completamente diverse da noi e di certo di minore qualità (e quantità), oggi siamo nella fortunata condizione di poter scegliere tra cibi tradizionali (o presunti tali) e cibi innovativi. Però bisogna essere chiari, il futuro è l’innovazione, non la difesa di un passato che per giunta non è mai esistito. In nessun settore le tecniche del passato sono migliori di quelle del presente. Se qualcuno preferisce mangiare cibi coltivati con tecniche arretrate, creati utilizzando sementi o varietà animali meno produttive e quindi è disposto a spendere di più, buon per lui e buon per il produttore che realizzerà un guadagno superiore, ma da qui a farne un modello per il nostro settore agroalimentare ce ne passa.

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Antonio Savarese

Ingegnere gestionale, sono un Project Manager in Enel Italia nella funzione System Improvements. Da piu' di 15 anni svolgo attivita' come giornalista freelance e consulente di comunicazione per alcune...

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