Sa Leppa de Chintu

I coltelli sardi a serramanico o Arresojas rappresentano uno dei prodotti artigianali più conosciuti e apprezzati dell’isola anche fuori dai confini regionali.

L’arma più diffusa in Sardegna fino alla fine dell’ottocento è stata sa “Leppa de Chintu” (coltello da cintura). Una sorta di sciabola senza guardia di circa 60 cm, con la punta incurvata verso l’alto. Per ragioni di sicurezza, si portava legata alla cintola, da cui prende il nome.

La “balentìa”, intesa nelle comunità della Barbagia, come il valore dell’uomo, ossia una commistione di abilità, coraggio e saggezza ma anche sprezzo del pericolo, è immediatamente riconosciuta attraverso i coltelli, che venivano sfoderati orgogliosamente per il regolamento di questioni personali.

In un testo storico, si racconta che tra il 1700 e il 1800, anche a Selargius, una comunità del sud Sardegna, l’uso dei coltelli nella risoluzione dei conti era ampiamente diffuso. Gli autori hanno studiato la società selargina attraverso i processi penali del tempo. Da questi emergono numerosi episodi di delinquenza minore che mostrano una comunità litigiosa e facile all’alterco. Ma sopratutto all’utilizzo frequente della leppa tenuta sempre in tasca.

Ma non solo per questo si utilizzavano le leppe. Il loro era un uso quotidiano, per tagliare il pane, il formaggio oppure per la macellazione delle pecore e gli agnelli o della cacciagione. Ma soprattutto per l’uccisione del maiale, una vera cerimonia, che coinvolgeva la famiglia e gli amici. Le lunghe armi, permettevano ai macellai esperti, di arrivare direttamente al cuore dell’animale evitandogli inutili sofferenze.

In Sardegna, durante il predominio coloniale spagnolo e piemontese, si imposero delle severe limitazioni alla produzione e all’uso di coltelli a lama fissa.

Nel 1871, in tutto il territorio nazionale si emanò una legge che vietava il porto di coltelli con lama superiore a dieci centimetri. Col decreto Giolitti del 1908 si ebbe un’ulteriore stretta, riducendo la lunghezza della lama a non più di quattro centimetri, in seguito portata a sei.

Ma i fabbri coltellinai, per aggirare le restrizioni, ebbero l’idea di imperniare la lama nel manico. In questo modo, l’osso diventava una sorta di contenitore, che rendeva l’arma più facilmente occultabile.

S’Arresoja

Nacque così s’Arresoja, un coltello a serramanico che si diffuse rapidamente in tutta la Sardegna, prendendo nomi diversi a seconda della zona geografica. Resolza nel nord, Lesorja nel nuorese, Arresoja nel sud dell’isola.

È importante non confondere s’Arresoja con sa Leppa. Infatti, oggi, si tende a usare i due nomi come sinonimi per indicare i coltelli sardi a serramanico. In realtà si parla di oggetti diversi tra loro. Sa Leppa aveva una lama fissa, il cui modello non trova alcun corrispettivo né in Italia, né in altra parte d’Europa. Ne esistono di simili solo in Medio Oriente e in alcune tribù berbere del Nordafrica.

S’Arresoja divenne un utensile indispensabile per le impellenze quotidiane di pastori, contadini, e di tutte le categorie di lavoratori che svolgevano attività manuali. Per questo motivo l’antropologo Bachisio Bandinu la definì il “prolungamento della mano”.

Era utilizzata non solo come strumento da taglio e da difesa, ma anche come posata per portare il cibo alla bocca.

Grande notorietà fu raggiunta durante la Prima Guerra Mondiale. Si racconta che i soldati della Brigata Sassari, usassero questo coltello per difendersi con maestria dal nemico, intrecciando sanguinose lotte corpo a corpo.

Così, grazie alla crescente domanda, i fabbri artigiani di diversi paesi della Sardegna, che tramandavano la loro arte di padre in figlio, oltre a continuare a produrre i manufatti di uso quotidiano, si specializzarono nella forgiatura di lame, affermandone alcune tipologie che ben presto diventarono famose.

Le varietà

I coltelli sardi si suddividono in due categorie di base: sa Leppa, ovvero il coltello a manico fisso, e s’Arresoja, il coltello a serramanico. Quelli che ad oggi sono ancora realizzati sono quattro: la Pattadese, l’Arburese, la Guspinese e la Còrrina.

La regione Sardegna, per tutelare la produzione artigianale dell’isola, ha conferito il marchio DOC alle prime tre, accrescendone la fama e il valore.

Sa Pattadesa

Caratteristica del sassarese, prende il nome dal paese di Pattada dove è nata. È un coltello “Animato”, ossia con impugnatura ferrata, realizzata con due placchette di corno che sono giustapposte su un archetto in ferro mediante ribattini. È dotata di una lama a serramanico in acciaio o in damasco imperniata su un anello in metallo. Viene realizzata in differenti lunghezze a seconda dell’uso a cui è destinata.

S’Arburesa

Nome che deriva dal paese di Arbus nel sud Sardegna. Fa parte della categoria dei coltelli cosiddetti monolitici a serramanico. Ha una lama a foglia larga e panciuta, che lo rende uno dei migliori strumenti per la pratica venatoria. L’impugnatura, generalmente in corno di montone, è ricavata da un monoblocco d’osso. Tagliata appositamente al centro per accogliere la lama, è spesso decorata con intagli preziosi che raffigurano animali tipici della Sardegna. In tempi recenti si possono trovare anche delle Arburesi con il manico ferrato.

Sa Guspinesa

Originariamente con lama panciuta a punta e manico monoblocco ricurvo, ha cambiato forma a seguito della legge giolittiana. Questa vietava “il porto senza giustificato motivo” dei coltelli appuntiti, e suggerì agli artigiani di realizzarne anche una versione con lama tronca. Questo modello è detto guspinese a spatola e divenne il coltello più in uso dei minatori. Sa Guspinesa, nata nel paese di Guspini, in Medio Campidano, nella versione originale è chiamata anche a foglia di mirto.

Sa Còrrina

È il coltello più semplice e antico. Presenta una lama fissa a foglia d’ulivo e manico in corno di capra, ed è usata tipicamente dai pastori.

La produzione

La lavorazione dei coltelli sardi prevede tre fasi fondamentali, eseguite da artigiani esperti: il taglio del corno, la forgiatura della lama e l’inserimento del manico.

In principio rustici, forti, nati come strumenti di uso quotidiano, hanno avuto nei secoli un’evoluzione artistica, e le produzioni tradizionali sono diventate sempre più accurate.

Uscendo dalle fucine, come dei veri e propri manufatti orafi, is Arasojas, si possono definire “prendas attàlzadas” (gioielli taglienti). E sono particolarmente apprezzate da collezionisti, cacciatori e amanti dei manufatti d’autore.

Per costruire il modello più semplice di Arresoja, occorrono circa 12 ore di lavoro. La prima fase è il taglio del corno che va scaldato e pressato per creare due guancette. Segue la forgiatura della lama, la modellazione per asportazione, e l’innesto sul manico. Si termina applicando l’anello in ottone, o in rame cesellato, che viene bloccato da un perno sull’impugnatura.

La lama è lavorata a caldo dai fabbri, che rivelano la loro bravura di artigiani, temprandola e modellandola con precisi colpi di martello. Rifinita alla mola con la lima, è poi affilata con nafta e tela smeriglio. Ognuno di essi segue un segreto rituale che dona un’anima particolare ad ogni coltello.

I materiali

I materiali per la realizzazione dei coltelli sardi sono simili per tutte le tipologie e sono tipici del territorio isolano.

La lama e l’archetto possono essere in carbonio, in acciaio temperato inossidabile, oppure in Damasco. Come è noto, gli acciai non sono tutti uguali. La scelta di uno piuttosto che di un altro, in funzione dell’utilizzo finale del coltello, è di fondamentale importanza.

L’effetto Damasco, particolarmente lungo e complesso, si ottiene pressando insieme centinaia di sottilissimi strati di acciaio e nichel. Nella lavorazione andranno a creare striature e disegni simili al riverbero dell’acqua di uno stagno, o alle nervature del legno.

Per il manico si utilizzano materiali naturali, dalla radica al ginepro al corno animale. Il più raffinato è certamente quello di muflone nero. Ma sono diffuse anche le impugnature realizzate con corna di montone e cervo, fino a quelle di capra nelle varianti meno pregiate.

Il collarino è, nella maggior parte dei casi, in ottone, alpaca o rame. Ma non mancano coltelli particolarmente preziosi che presentano un anello in oro o argento, talvolta finemente decorato con incisioni al bulino.

Quanto costa un coltello sardo?

In virtù di quanto si è detto, è bene diffidare dei prezzi troppo bassi, che possono andare da alcune decine di euro a svariate centinaia. Quelli da collezione, ad esempio, hanno delle lavorazioni molto particolari e alcuni sono dei veri capolavori artistici con lame damascate e impugnature cesellate.

I veri coltelli sardi si riconoscono facilmente grazie alla firma apposta sulla lama da colui che li ha creati. Spesso si tratta del cognome del coltellinaio, di un suo pseudonimo o di un simbolo.

È consigliabile acquistarli nelle botteghe degli artigiani dei paesi di produzione oppure online, sui siti certificati. Volendo possono essere creati su precisa richiesta dell’acquirente che li può far realizzare a suo gusto e misura.

I collezionisti

Sempre più persone si avvicinano con ammirazione a questi preziosi oggetti. La collezione ritratta nelle foto appartiene ad un vero appassionato. Negli anni ha creato una preziosa raccolta, partendo dal coltello lasciatogli in eredità da suo padre. Una Arresoja lunga oltre 50 cm, col suo manico incurvato e la lama consumata dal lungo utilizzo.

Salvando esemplari antichi e aggiungendone di nuovi realizzati su sua commissione, oppure ricevuti in dono da amici speciali che condividono gli stessi interessi, continua ad arricchirla con dei veri pezzi da museo che ricalcano la storia della coltelleria in Sardegna.

Quello che ritiene più prezioso è firmato da Boiteddu Fogarizzu capostipite di una famosa dinastia di coltellinai di Pattada. Tra gli altri meritevoli di nota, quelli della coltelleria Usai di Sinnai e quelli della famiglia Zuddas, coltellinai di Monserrato. Ma conserva con particolare attenzione, i pezzi realizzati da Giampiero Pizzadili, coltellinaio pattadese, noto tra appassionati e collezionisti per la sua pregevole fattura.

Sara Sanna

Ho 49 anni e abito in Sardegna. Ho lavorato come tecnico del restauro archeologico prima, poi, come guida turistica e operatrice museale presso la "Fondazione Barumini Sistema Cultura" che si occupa della...

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