Tocca allo chef Salvatore Avallone e alla maitre-sommelier Federica Gatto – coppia nella vita e sul lavoro – segnare il nuovo corso della cucina di “Cetaria”, lanciando la sfida dalla valle dell’Irno.

Non c’è gusto senza una logica ed un senso – amava ripetere Gianni Mura – che come un filo d’Arianna potrà condurci in un ristorante foriero di nuove scoperte e conoscenze.

La “logica” amata dal celebre scrittore e gastronomo di origini meneghine – nell’entropia delle vicissitudini che solo la vita sa offrirci – ha condotto la giovane coppia formata da Federica Gatto e Salvatore Avallone all’intrapresa del Ristorante Cetaria nel piccolo comune di Baronissi, sede del campus universitario di Salerno – Fisciano. Studi comuni giuridici, e contestuale passione “militante” per la scrittura ed il giornalismo, tutt’ora da lei coltivata nell’ambito della critica eno-gastronomica, senza alcuna deviazione, né interferenza, rispetto alle coordinate operative dell’attività comune.

Da sinistra: Salvatore Avallone, Carlo Straface e Federica Gatto

I luoghi aviti che ritornano, come un contrappunto musicale in una partitura complessa eppure sempre incompiuta perché da scrivere: lo chef, originario di Cetara, dal quale mutua il nome il locale, la maitre-coniuge, da un piccolo borgo dell’Aspromonte, Taurianova, la Calabria più ancestrale ed impervia, che le ha dato i natali, sede della piccola azienda agricola familiare dal quale provengono esclusivamente i prodotti – frutta, verdura ed ortaggi – impiegati nelle preparazioni.

Il dehor esterno fa da coltraltare allo splendido palazzo d’epoca nel quale è ubicato il ristorante Cetaria, lo spazio prospiciente è delimitato dai curati e rigogliosi giardinetti e dalle geometrie razionaliste del contiguo palazzo del comune, probabilmente di epoca fascista. Visitiamo il locale in una fresca serata di inizio primavera, con un clima non allineato alle innovazioni del menù, ispirato ad una “creatività stagionale”, seppur temperata dalla tradizione.

Non sembra azzardato sostenere la visione organica della cucina di Salvatore Avallone come ispirata alla complessità morfologica e pedo-climatica del territorio che ospita il proprio ristorante. Una valle, quella dell’Irno summenzionata, che si estende a nord della provincia di Salerno, occupante la parte estrema meridionale della provincia di Avellino, racchiusa dal Mar Tirreno, dai monti irpini e da quelli Picentini, insomma ingredienti di terra e di mare che si innestano reciprocamente, senza soluzione di continuità, nel segno di una tradizione temperata.

Una cesura rigorosa con la cucina tradizionale, quella reputata dal titolare “oleografica e formalistica”, ed aperture verso contaminazioni di gusto ed internazionalismi, lontano da velleità referenziali e tentazioni iconoclaste o, all’opposto, generaliste, di passivo compiacimento verso la clientela.

Nessuna indulgenza verso croccantezza o umami d’accomodamento, nel contempo la consapevolezza che l’acidità vada spesso valorizzata, dando nerbo alla tensione gustativa. Indispensabili le rifiniture, nelle simmetrie dei pairing, apportate da Federica, ieratica maitre e raffinata sommelier, con molte incursioni, nella composizione della cantina – circa mille le referenze disponibili – nella biodinamica e nell’enologia c.d. “naturale”, mai parossismi.

Accomodati allo splendido tavolo di cristallo con gambe in legno dell’azienda Calligaris – al bando il tovagliato – rimaniamo colpiti dalla creatività dei piatti e suppellettili: tre i menù degustazione disponibili da Cetaria, “raccontiamo bufale….per vegetariani”, “tutto cambia per non cambiare”, ed infine quello da dieci portate, “liberaMente”, sorta di improvvisazione a mano libera su coordinate predefinite dello chef Avallone.

Si inizia dalla teoria di amouse-bouche “bacio di benvenuto” – splendido l’impiattamento – con cannolo ripieno di cheesecake alle alici, bob-bon con sgombro e papaccelle, pan brioche con salsa olandese e tonno affumicato, sedano rapa marinato in aceto di lamponi e caviale”, eccezionale lo Champagne servito in abbinamento, “Augustine Terre”, blanc de noir biodinamico dalle montagne di Reims con fermentazione in anfore di terracotta, senza filtrazione, sorso teso con note vegetali e saline, ad onta dell’impiego esclusivo del vitigno Pinot Noir.

Si prosegue con l’uovo in carbonara cotto a bassa temperatura, con guanciale croccante, spuma di parmigiano e pecorino, pairing di grande rigore innovativo con “Joaquin – Dall’Isola Bianco I.G.T. 2019”, incredibile blend di varietà autoctone dell’isola di Capri, Greco, Falanghina, Biancolella e Ciunchesa, grappoli lasciati appassire trenta giorni per un corredo aromatico di straordinaria complessità.

È la volta del calamaro in tre servizi, pancia scottata con piselli e frutti di mare, ali soffiate al nero, ed infine le interiora – splendida la posateria di Versace – sale in cattedra la sommelier con l’iconico “Clos de la Coulèe de Serrant 2018”, del leggendario Nicolas Joly, dalla regione della Loira chenin blanc in purezza, da uno dei padri della biodinamica d’oltralpe.

Sul successivo binomio di primi “tortelli al blu di bufalo con datterino giallo, ricci di mare ed anemoni” e “risotto agli asparagi, gamberi tartufo e limone” è di elevato profilo il pairing con il “Milan Nestaric Gin Tonic 2018”, imponente orange wine dalla Repubblica Ceca, con note iodate e di cera, un sorso lungo e perfettamente funzionalizzato alla complessità delle preparazioni.

Forse l’abbinamento più “avanguardistico” il successivo proposto, in cui sullo spaghetto al burro, cotto in acqua di funghi e tartufo bianchetto, segue il Vecchio Samperi Perpetuo di Marco De Bartoli, Marsala d’eccellenza invecchiato per travasi, simbolo dell’enologia siciliana, note gustative consonanti invece che in giustapposizione, come in uso nei pairing ordinari. Infine sul “carciofo, tobinambur e mozzarella” degustiamo il Fiano di Montefredane “Iole Andreotti 19 Giugno”, coltivato in regime biologico e dalle stupende etichette, raffiguranti disegni ispirati al primitivismo decorativo ed all’art brut.

Che grazie e leggerezza il dessert a corredo, “cioccolato bianco, lamponi, yuzu ed abete” preceduto dalla piccola pasticceria, originale la tisana proposta in abbinamento, a corredo di una degustazione davvero imponente. Una sorta di montagne russa del gusto, con i piedi piantati a terra, non appaia un’aporia, per un ristorante come Cetaria destinato a segnare il passo dei trend gastronomici che verranno.

Carlo Straface

Carlo Straface, partenopeo di nascita, corso di studi in giurisprudenza, di professione avvocato e giornalista pubblicista, eno-gastronomia e letteratura le sue coordinate di riferimento. Sommelier di...

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