Giulio Gigli, classe 1987, ad agosto scorso ha aperto UNE nel piccolo borgo di Capodacqua, un paesino che conta poco meno di 200 abitanti, racchiuso tra le montagne intorno a Foligno, la città nella quale Gigli è nato, cresciuto e poi partito.

Giulio per quindici anni ha lavorato in grandi ristoranti d’Europa e d’oltreoceano, e dopo aver appreso le tecniche e le tradizioni della cucina contemporanea francese e spagnola ha deciso di tornare nella sua terra d’origine per aprire il suo primo ristorante dove proporre i prodotti dimenticati dell’Umbria e la creatività appresa all’estero. Un progetto che mescola l’innovazione e le tecniche internazionali con la cultura della terra.

Ciao Giulio, da qualche mese hai inaugurato Une, nel borgo di Capodacqua, lì tra le montagne dove sei nato e cresciuto, ci racconti come nasce questo progetto?

Io ho finito di lavorare a Barcellona poco prima del Covid, una volta scoppiata la pandemia sono rimasto fermo circa un anno, in questo periodo mi sono reso conto della qualità della vita nelle mie zone  e mi ha portato alla convinzione che qui volevo vivere e creare qualcosa di mio. Ho avuto la possibilità di riscoprire il mio territorio, le materie prime d’eccellenza che potevano essere usate a livello gastronomico.  Proprio questo tempo e la scoperta di allevatori, produttori di tali prodotti mi hanno convinto  che poteva essere interessante creare qualcosa che qui non era presente. Ho trovato la struttura che mi permetteva di poter sviluppare un progetto molto ampio fatto non solo di ristorante, infatti abbiamo un antico frantoio, uno spazio esterno da sfruttare come orto ed abbiamo già effettuato un prima semina. Un luogo splendido a ridosso di un castello del 1200 Torre Trinci.

Come ti sei avvicinato alla cucina?

Ho fatto la scuola alberghiera ma sin da piccolo mi sono messo ai fornelli per dare una mano in casa. Questi gesti hanno sempre rappresentato per me un gesto di conforto, un gesto d’affetto e d’amore. Poi ho effettuato gli studi che affiancati ai viaggi, di cui sono appassionato, mi hanno ancora più dato consapevolezza che questa era la mia strada.

Hai lavorato in molti ristoranti dal Pagliaccio di Anthony Genovese, al Le Cheval Blanc di Yannick Alléno, fino al tre stelle Benu di San Francisco, inoltre sei stato anche responsabile creativo di Disfrutar, due stelle Michelin a Barcellona, che esperienze sono state e cosa ti porti dietro?

Io ho iniziato a lavorare a Roma alla Ristorante La Terrazza – Hotel Eden, poi mi sono trasferito in Francia dove ho imparato tutte le tecniche di cucina fondamentali a partire dalla preparazione delle salse di cui i francesi sono maestri ma mi ha insegnato anche il concetto di brigata, dove i ruoli e la divisione delle attività è alla base per il successo di un ristorante, questo è sicuramente qualcosa che oggi mi porto dietro. Poi sono tornato in Italia a lavorare al Pagliaccio di Anthony Genovese, lui è un chef che mi ha dato la consapevolezza che la cucina non deve essere impersonale, come un po’ quella francese, ma deve parlare di me, delle mie esperienze e del mio vissuto. Per lui la cucina non è solo tecnica e prodotto ma è l’espressione del proprio io, del proprio percorso personale e delle proprie origini. In Spagna ho imparato la creatività, ero capo del reparto creativo, e questo mi ha dato consapevolezza di alcuni concetti che sono legati alle motivazioni per le quali viene presentato un piatto e cosa esso deve rappresentare per i clienti, esso cioè deve dare consapevolezza ai commensali della storia del piatto e del processo creativo che sta dietro ognuno di esso. Il processo creativo è forse la parte più interessante del lavoro del cuoco.

Il menù ha come base la cucina mediterranea ma a cui hai dato una chiave moderna, puoi dirci qualcosa in più su cosa proporrai?

I piatti sono molto stagionali, cambieranno spesso anche se non nella loro totalità. Ci facciamo inspirare molto dai produttori locali e delle primizie che nel tempo ci possono proporre. Siamo in una zona di montagna che in parte ci inspira con i funghi e le erbe selvatiche che possiamo ritrovare in zona. Per esempio in questo periodo proponiamo degli gnocchi di malva, un erba che ritroviamo direttamente nel nostro giardino, oppure abbiamo un piatto fatto con gli spinaci selvatici che ritroviamo sempre presso di noi. Il nostro è un menù che parla e comunica con il territorio che ci circonda.

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“Une” significa “acqua”, perché questo nome?

Une significa acqua, ma in qualche modo può sembrare il plurale di uno, ma sembra anche la radice di unire, è un nome che ha a che fare con le relazioni. Il nome condensa le origini della regione con quelle del paese dove è sito il ristorante, Capodacqua, che racchiude l’elemento nel nome. Ma anche del vecchio mulino che alimentava il frantoio, ancora presente all’interno di una delle sale, che in passato veniva azionato grazie alle acque del torrente Roveggiano. Inoltre ho una sorgente del giardino dietro il ristorante, inoltre il ristorante è attaccato all’acquedotto  (infatti uno dei menù proposti si chiama “Acquedotto”) tutte queste cose ci hanno portato a scegliere il nome Une.

Preseti due menù Acquedotto e Relazioni, ci puoi dire qualcosa in più?

Sono due parole molto importanti per me e per il locale, il primo Acquedotto e di 5 portate e Relaziolni di 7 portate, entrambi sono legati ai prodotti di stagioni e quindi cambieranno nel tempo.

Qual è la tua filosofia in cucina?

Abbiamo una cucina a vista, impiattiamo tutto in sala e quindi è una cucina aperta che vuole coinvolgere i clienti che viene da noi per fare un’esperienza e questo ci aiuta a farlo. È importante che il cliente si senta a suo agio e si sente vicino alla parte di sala e cucina e che quindi si senta coccolato.

Il ristorante si trova di un antico mulino che risale al Quattrocento, puoi raccontarci qualcosa in più sulla struttura?

C’era il castello che era a protezione della fonte d’acqua, poi nasce l’acquedotto.  Dopo di che per sfruttare quest’acqua nasceva il molino che è stato operativo sino agli anni Ottanta. Abbiamo iniziato a realizzare un orto con una prima semina invernale e poi svilupperemo un’ulteriore semina per il periodo primavera/estate volta ad essere più auto forniti possibili, una coltivazione, comunque, mirata alle esigenze del menù.

Sei Umbro qual è il piatto della tradizione a cui sei particolarmente legato?

Un piatto che mi piace molto è il piccione ripieno, un piatto che dà una sensazione di casa, una sensazione piacevole dal gusto deciso. Anche qui al ristorante ne proponiamo una nostra versione dove proponiamo solo il petto ripieno di ciauscolo, di fegatini e tartufo accompagnato da una giardiniera che una antica ricetta di mia nonna.

Hai aperto in periodo particolarmente difficile contrassegnato dal Covid 19, cosa ti aspetti?

Sino ad oggi abbiamo avuto una buona risposta sia da parte dei clienti che della critica, spero di continuare così e spero di accontentare sempre più la nostra clientela.

Luigi Cristiani

Laureato in Economia, ha poi conseguito un MBA presso lo Stoà. Lavora in Enel Green Power dove si occupa di pianificazione e controllo . Dal 2010 scrive su diversi blog di economia e finanza (Il Denaro,...

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