Dalla Brasserie Lipp al Mary Celeste, passando per le luci del Moulin Rouge e un pranzo accanto al Louvre: quattro giorni nella Parigi che si racconta a tavola, tra memoria e modernità.
Parigi non è una città: è una promessa servita su piatti di porcellana.
Appena arrivi, ti accorgi che qui ogni pasto è un piccolo atto teatrale — che si tratti di una brasserie monumentale o di un bistrot nascosto, l’importante è partecipare.
In quattro giorni tra boulevard e vicoli, ho cercato la Parigi che mangia, che profuma di burro e che riesce ancora a sedurre anche chi, come me, di tavole ne ha viste tante.
Ho trovato autenticità, rumore, luce e delicatezza: quattro ingredienti che raccontano questa città meglio di qualsiasi guida turistica.
Ecco, tappa per tappa, il mio itinerario del gusto.
Brasserie Lipp – Il debutto tra le voci di Saint-Germain
Atterrare a Parigi di sera è come entrare in scena a spettacolo iniziato.
Il taxi scivola lungo boulevard Saint-Germain e l’insegna luminosa della Brasserie Lipp ti cattura come una promessa. Dentro, legno scuro, specchi, lampade d’ottone e un vociare continuo che è pura colonna sonora parigina.
Dal 1880, qui si celebra il rito della brasserie: porzioni generose, camerieri in divisa nera con papillon e un via vai di calici e piatti che sembra non fermarsi mai.
Per iniziare, due bicchieri di Moët & Chandon Brut Impérial (17 €) e del suo elegante alter ego Rosé (19 €) — il brindisi perfetto per una prima sera in città.
In tavola arrivano le Escargots de Bourgogne Label Rouge (12 pezzi, 26,50 €): immerse nel burro e prezzemolo, profumate d’aglio, sono un piccolo rito iniziatico per chi mette piede a Parigi per la prima volta.

Poi due piatti che racchiudono tutta la tradizione della casa: lo Jarret de porc aux lentilles (24,50 €), stinco di maiale servito su un letto di lenticchie cotte alla perfezione, e il Pied de porc farci, grillé (25,50 €), zampone ripieno e grigliato, accompagnato da un purè di patate indimenticabile per consistenza e profondità di gusto.
Sono piatti che profumano di forno e di domenica, preparati con la cura delle cose che non si improvvisano.
A chiudere, una Crème caramel (9 €) dorata e lucente come le luci fuori dalla vetrina: semplice, rassicurante, impeccabile.
Attorno, la sala è un concerto di risate, brindisi e canti improvvisati di “bon anniversaire”. La guardarobiera, con il suo sorriso e l’aria d’altri tempi, sembra uscita da un quadro di Manet.
È il posto che i parigini scelgono per festeggiare, rumoroso e autentico: un monumento vivente alla convivialità, dove il tempo si misura in portate e sorrisi.
Le Fumoir – Pranzo con vista Louvre (senza cliché)
A due passi dal Louvre, dove ci si aspetterebbe solo trappole per turisti, sorge un rifugio elegante e rassicurante: Le Fumoir.
Un luogo dove il tempo rallenta, tra candele accese anche di giorno, abat-jour, libri sugli scaffali e un servizio che sa essere presente ma discreto.
Il pubblico è composto da parigini veri, quelli che si concedono una lunga pausa pranzo parlando di lavoro ma assaporando ogni boccone: un gesto culturale, prima ancora che gastronomico.

Il menu è contemporaneo, ma mai pretenzioso.
Si comincia con un ceviche di ricciola in vinaigrette lattica con mele, nocciole e ravanelli, fresco e complesso, seguito da una tartare di manzo al kimchi con daikon, cipollotto e foglie di shizo, dove Oriente e Occidente si incontrano con naturalezza.
Poi la sorpresa più francese: la salsiccia artigianale del Perche, servita con purè, cavolo a punta e jus al sidro — un piatto che profuma di campagna e bistrot, rustico ma raffinato.

Per dessert, il gâteau au chocolat con coulis d’albicocca e nocciole tostate, e una torta all’arancia con gelato allo yogurt che chiude in freschezza.

Da bere, solo acqua e caffè speciali: il pomeriggio sarebbe stato ancora lungo.
La formula pranzo a 38 euro è un piccolo miracolo di qualità e misura.
Unico avvertimento: evitate l’acqua in bottiglia, costa quasi quanto un dolce — e a Parigi, il dolce non si rifiuta mai.
Chez Toinette – L’intimità di Montmartre tra velluto e burro

Scendendo da Montmartre, in una traversa discreta del quartiere di Pigalle, si trova uno di quei ristoranti che sembrano fatti apposta per sussurrare: Chez Toinette.
Niente insegne appariscenti, nessun neon. Solo legno, profumo di burro e bottiglie di vino allineate sul bancone come ricordi di serate passate.
L’atmosfera è intima, le luci basse, il servizio gentile.
Si inizia con la Terrine de Toinette (9 €), fatta in casa, corposa e rustica al punto giusto.
Poi due piatti che incarnano la Francia più sincera: la Bavette d’Aloyau Black Angus con salsa allo scalogno (25 €) e il Magret de canard rôti con miele e rosmarino (29 €).

In entrambi, il purè di patate è protagonista silenzioso ma fondamentale, cremoso e perfetto.

Nel bicchiere, un Les Saffres – Domaine du Séminaire, Côtes du Rhône, avvolgente come un abbraccio, accompagna ogni boccone.
E per dessert, un ritorno al classico: Crème brûlée alla vaniglia Bourbon (9 €), con la crosta che si spezza al primo colpo di cucchiaino.
Fuori, le luci del Moulin Rouge colorano la notte. Dentro, resta l’eco di una cena che sa di verità: quella che solo le piccole tavole sanno raccontare.
Le Mary Celeste – La Parigi giovane che balla tra Francia e mondo
L’ultima sera è dedicata al Marais, e Le Mary Celeste è la chiusura perfetta del viaggio.
Locale dal respiro giovane, cosmopolita, dove si può cenare al comptoir o — come ho fatto io — a un tavolino vicino alle grandi vetrate, per guardare la vita del quartiere scorrere tra risate e biciclette.
Le luci sono basse, la musica scelta con cura, e la cucina è una tavolozza di piccole porzioni in cui la Francia incontra il mondo.
Si inizia con le Huîtres Fine de Claire n°2 (4 € l’una): obbligatorie, l’ultima sera, come un brindisi al mare.
Seguono gli Œufs du Diable (8 €), le Tripes de bœuf alla carbonara (16 €) — un colpo di genio franco-italiano — e infine una Mousse au chocolat infusa al tè Darjeeling con marmellata d’arancia amara e feuilletine croccanti (10 €).


Nel calice, un Riesling alsaziano secco, delicato e minerale, accompagna la serata senza mai sovrastarla.
L’atmosfera è quella di una Parigi che non si prende troppo sul serio ma continua a sedurre con il gusto: semplice, moderno, sorprendente.
È una chiusura in leggerezza, un arrivederci più che un addio.
Epilogo – La città che si mangia da sé
Quattro giorni a Parigi non bastano per conoscerla, ma bastano per assaggiarla.
Dal burro delle brasserie alle note agrumate dei dessert, ho capito che qui il tempo non si misura in ore, ma in portate.
Ogni quartiere è un microcosmo gastronomico, ogni pasto una lezione di estetica e di misura.
Parigi non urla: sussurra.
E lo fa con la lingua più universale che esista — quella del piacere.
Sono tornata con la certezza che la felicità, in fondo, è una questione di equilibrio: tra un calice di Riesling, un purè fatto bene e una città che sa ancora sorprendere.
Perché la verità è che a Parigi non si va mai solo per vedere: si va per mangiare, respirare, ascoltare — e, naturalmente, per brindare.
https://www.foodmakers.it/cucina-francese-storia-piatti-iconici/
https://www.foodmakers.it/viaggi-gourmet-europa/
