Una breve guida per capire che il gamay non è solo vino novello

“sleale, dai del vino in abbondanza, di così grande e orribile asprezza” così edittava, riferendosi al Gamay, nel 1395, Filippo l’Ardito, ai tempi Duca di Borgogna.

Facile, dunque, immaginare che da quel momento al Gamay venisse riservato al più un posto nelle sole carceri reali.

Eppure se il Duca prima di affannarsi, così frettolosamente, a cacciarlo dalla Cote d’Or, avesse fatto i conti con il territorio, probabilmente gli avrebbe concesso un posto in prima fila a corte, anziché relegarlo nei suoi ultimi anfratti.

Se solo avesse capito che quel suolo di granito e scisti tipico del Beaujolais e patria di elezione del Gamay era ben diverso da quello argilloso e calcareo della Borgogna centrale e che era proprio quel territorio l’unico a saper limare quella “orribile asprezza” regalando vini dalla beva molto più che incitante.

Ma il Duca non lo capì e fu così che, a poco a poco, il Gamay uscì dall’area di interesse dei vini della Borgogna, lasciando come protagonista indiscusso il suo unico rivale, il Pinot Noir.

Ne seguirono secoli di bistrattamenti e sberleffi, e alla fine, quasi per antropologia, il Gamay era diventato il vino degli incompresi.

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Serviva dunque restituire nuova vita e valore al vitigno, e fu così che durante gli anni ‘90 iniziò una vera e propria rivoluzione copernicana.

Il primo step era anzitutto allontanare il concetto di “Noveau”.

Per anni il Gamay è stato per la Francia e per il mondo intero solo uno slogan: “Le Beaujolais Nouveau est arrivé!”

Quel tanto amato (eppure tanto violentato) vino novello.

Quello che in Italia ci fa benedire San Martino girovagando “per le vie del borgo dal ribollir de’ tini” e che in Francia diventa la grande festa del deblocage a partire dal terzo giovedì di ogni mese di novembre (ovverosia il primo giorno in cui è consentita la vendita del novello di quell’annata).

Tanto buono certo, se non fosse che nel tempo, sono stati gli stessi produttori a schernire il loro vino, da averlo reso così fruibile e piacevole per il mercato fino a soppiantare la sua stessa personalità.   

Gamay ormai stava a Novello come la Cola sta alla Coca Cola e se per quest’ultima va più che bene associare un marchio a un prodotto, per il Gamay era, invece, diventato anti producente.  

Tanti parlavano di vin noveau del Beaujolais senza sapere neppure quale fosse il vitigno dal quale si otteneva. E’ come dire che il Barolo si fa con il Barolo e non con il Nebbiolo, o che un Taurasi si fa con il Taurasi e non con l’Aglianico.

Quel “terribile” Beaujolais Noveau aveva soppiantato il suo protagonista: il vitigno, il Gamay! E bisognava assolutamente scrollarsi di questo stereotipo.

Così finalmente arriva la grande presa di posizione dei vigneron locali che dopo alcuni esperimenti tra barrique e botti grandi, si sorpresero essi stessi. Il Gamay non era solo un novello/pischello, ma trattato in maniera adeguata tanto in vigna che in cantina, sapeva esprimersi e raccontarsi anche il giorno del suo decimo compleanno.

Ad essere sinceri però, altro che rivoluzione, qui è solo la storia che si ripete e forse troppo spesso la si dimentica.

Agli albori della denominazione, infatti, in Beaujolais il vino fermentava ed affinava già in legno, si era passati addirittura dalle fût (con capacità di 212 litri) per arrivare al foudre (più di 225 litri). Ed è stato poi negli anni ‘80 che il “Dio denaro”, nel trovare metodi più rapidi ed efficaci, ha eletto come protagonisti indiscussi l’acciaio ed il cemento.

Ben inteso non è una demonizzazione verso questi due materiali che, anzi, sono i principali responsabili e benefattori del succo, della freschezza e della vinosità che ti aspetti da un calice di Gamay.

Ma così si rischiava di vedere una sola faccia di chi invece ha mille volti.

E allora finalmente all’alba di questo nostro millennio si è raggiunto un perfetto equilibrio tra i vari contenitori.

Per chi ama cogliere attimi fuggenti e croccanti di un Gamay da macerazione semi-carbonica (tipica del Noveau) che sfugge solo nel cemento, Karim Vionnet  col suo “Beaujolais Villages ‘Du Beur Dans Les Pinards” rappresenta l’emblema.

Il suo vino matura solo per alcuni mesi in vasche di vetroresina e poi viene direttamente imbottigliato senza filtrazioni. Ne nasce un calice di un vivacissimo rosso purpureo che regala un bouquet di fragranti note rosse di ciliegia e piccole bacche. Sorso agile, veloce, tanto croccante quanto sapido.

Un bel manifesto del Beaujolais nella sua semplicità.

Mentre invece per quell’altra faccia del Gamay, quella che ama lasciar scorrere il suo tempo verso declinazioni speziate e mature è il Domaine de Fa   col suo Fleurie “Roche Guillon 2015” che regala accanto a bacche rosse di ribes e di ciliegia, delle intense note di cuoio e di balsamicità.

La contrapposizione in un palato che non pare per nulla opulento e anzi dribla tra discreta freschezza e tannini abbondanti (ma ben addomesticati grazie alle fudres quasi esauste dove il Gamay sosta per un breve periodo prima di essere imbottigliato).

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Eppure pensare che la scelta di vinificare in un senso piuttosto che in un altro rientri solo nel libero arbitrio dei vigneron del Beaujolais, è errato.

La rivoluzione, quella vera, quella davvero copernicana, e che ha spinto oggi il Beaujolais verso la produzione di “vini di qualità”, è stata, invece, la profonda attenzione del territorio.

Una volta capito come valorizzare il suo vitigno bisognava ora trovare l’eccellenza del terroir.

Arrivare a far capire al mondo che si poteva andare in Borgogna, bypassare la Cote d’Or, e visitare direttamente il Beaujolais. 

Ma per fare ciò era necessario un restyling della denominazione, ormai datata classe 1935.

Così i seicentosessanta ettari di vigneto sono stati studiati con precisione maniacale pur di capire le differenze tra un terreno ed il suo vicino, tra quelli sabbiosi che avrebbero potuto regalare ottimi Gamay soprattutto se vinificati e affinati in acciaio e quelli che, invece, essendo ricchi di granito e arenacea avrebbero rappresentato la base perfetta per un affinamento in legno.

Cha poi detta in soldoni vale un po’ come la nostra tradizione contadina: se c’erano patate ad un tempo meglio non piantare vigne. E qui il concetto è diventato semplicemente più aulico.

Cosi tra le 12 AOC presenti sul territorio, ecco spuntare vestiti di tutto tiro ben 10 cru (ovverosia la delimitazione di quei terreni considerati più pregiati), come quelli di Régnié, di Moulin a vent, di Fleurie.

E’ da qui che oggi nascono i cosidetti “vin de garde” 

Ne è un esempio, nel cru di Fleury, un vino strepitoso di Delienne Marcl’Abbaye Road” frutto dell’unione di vecchie viti di 40 e 80 anni  che macerano in tini di cemento e affinano poi per circa 1 anno tra botti grandi e semimuidi.

E sarebbe un atto irresponsabile non nominare le incommensurabili espressioni che Jean Foillard, regala nel cru di Morgon. Una fra tutte, è senza dubbio il suo Cote du Py”   – dal nome dell’iconica collina con la quercia che si trova in questo cru  e che rappresenta senza dubbio uno dei territori più celebrati. Un vino, in quasi tutte le sue annate, dal carattere tanto setoso e carezzevole, quanto vivace e profondo. Eccellenza di quel territorio.

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Dunque il prossimo che parlando di Gamay esclama “Le Beaujolais Nouveau est arrivé!” verrà bacchettato!

Assunta Casiello

Persa negli effluvi nobili del vino da quando la maggiore età glielo ha consentito, curiosa di tutto ciò che è nuovo e che si può e si deve conoscere nella vita. Classe '84, ha speso gli ultimi anni...

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