Anno nuovo vita nuova. O almeno così eravamo abituati a dire fino a non molto tempo addietro. A quanto pare, però, il settore della ristorazione dovrà aspettare ancora un po’ prima di potersi buttare alle spalle l’annus horribilis appesa terminato.

Le news di queste ultime ore ci danno la misura di quanto questo settore versi in cattive acque, rese ancora più torbide dalle problematiche relative anche alla rete che si è andata sviluppando intorno ad esso negli ultimi dieci mesi.

Il video virale del rider napoletano, malmenato e derubato dello scooter da un piccolo branco di malviventi, ha messo in luce la fragilità di un settore, quello del delivery, diventato protagonista, in molti casi indispensabile, nell’Italia che cerca di sopravvivere alla crisi.

Migliaia di lavoratori precari, esposti ai pericoli, nell’Italia del coprifuoco, e soprattutto sottopagati, sono diventati da mesi la risorsa sulla quale si tiene in bilico un intero comparto.

Un settore, quello dei rider, che non gode di un reale inquadramento legislativo. Quindi è facile fare carne da macello facendo leva sullo stato di necessità in cui sempre più persone versano.

Il delivery dicevamo, quello dei grandi colossi, delle società straniere che hanno monopolizzato il mercato, partendo dalle città del nord per affermarsi ora (di sicuro possiamo affermare che almeno loro usciranno vincenti dalla pandemia) in tutta Italia, grazie al lockdown prima, e alle varie misure restrittive poi che chiudendo i locali dalle 18 in poi, lasciano ben poca scelta a chi vuole concedersi un pasto del proprio locale preferito.

Abbiamo fatto l’abitudine a veder sfrecciare questi moderni fattorini con i loro zaini colorati a qualsiasi ora del giorno tanto che quasi non ci chiediamo più cosa ci sia dietro.

Grandi società. Colossi. In alcuni casi multinazionali che sottoscrivono con le attività di ristorazione contratti a dir poco onerosi per queste ultime.

Commissioni che vanno dal 25 al 35 %. Penali altissime per l’attesa. Tasse versate nelle casse di stati esteri. Insomma, tutte condizioni che lasciano ben poco nelle tasche del ristoratore e dell’Italia in generale

Contro questa sorta di sfruttamento è stato indetto in questi giorni da Tni (Tutela nazionale imprese) un “Delivery day”. È una giornata in cui l’associazione, che rappresenta 40 mila aziende italiane, invita i cittadini a non chiamare, dal giorno dell’Epifania in poi, le società di delivery per i loro ordini, ma a contattare direttamente i locali per sostenere le attività di ristorazione vicine. Oppure di ricorrere all’asporto.

Ovviamente, viene specificato che non si tratta di una campagna contro i fattorini. Anzi, promettono i promotori dell’iniziativa che di loro “si occuperanno non appena i loro ristoranti torneranno in attivo”.

Iniziativa sicuramente lodevole e nata da buone intenzioni. Quello che non si capisce bene in questa proposta è cosa si propone in alternativa.

Oggi come oggi non si capisce bene cosa si chiede agli italiani che stanno ancora vivendo un momento così delicato. E cosa si offra loro per compensare.

Da marzo l’emergenza sanitaria ci ha costretti a stare in casa. Uno dei pochi modi per evadere è diventato farsi recapitare direttamente al proprio domicilio un sushi, la pizza preferita. O perché no un pasto stellato!

Non sempre è facile ricorrere all’asporto. Magari perché il mio posto preferito è fuori dal mio comune di residenza e siamo in zona rossa. Oppure perché mi trovo nell’impossibilità (per tanti motivi, magari ho il Covid) di uscire. O ancora perché mi viene voglia di pizza dopo le 22 che è il limite orario entro cui questa modalità di acquisto è consentita.

Ora, se pure è vero che le compagnie di delivery creano reddito prevalentemente per sé stesse e che le loro condizioni possono risultare favorevoli forse solo per colossi simili a loro (leggi McDonald’s etc) forse resta ancora legittimo, in mancanza di valide alternative, chiamare Justeat, Glovo, Deliveroo e compagni, per godersi una cena.

Tante attività di ristorazione non hanno propri fattorini. Vuoi perché fino a febbraio 2020 non ne avevano mai sentito l’esigenza. Vuoi perché per loro comodità preferiscono non occuparsi direttamente anche di questo aspetto. Quindi come dovrebbero sopravvivere a questa ulteriore prova a cui viene chiamata la categoria?

Non sarebbe più utile provare a mettere, da subito, in campo delle alternative piuttosto che chiedere di privarsi anche delle briciole con le quali si prova a mantenersi a galla?

Perché è risaputo che né delivery né asporto sono la soluzione. Servono a mala pena a coprire le spese, soprattutto quando sono gravate dalle pesanti condizioni di cui parlavamo prima. Ma al momento rappresentano l’unica possibilità per molti per non chiudere definitivamente.

Qualcuno ha deciso di non sottostare ai loro diktat. Qualcuno fa le consegne di persona. I pochi con le spalle più sicure hanno preferito chiudere per il momento, evitando così inutili spese e aspettando tempi migliori. Ma in tanti per sopravvivere si sono dovuti accontentare. E lo hanno fatto appunto per evitare di essere costretti a chiudere per sempre, a licenziare tutti i loro dipendenti, che in questo modo invece, seppur a fatica tra una cassa integrazione che non arriva e un turno, stanno provando a salvare.

Quindi forse sarebbe più opportuno immaginare da subito delle alternative nella ristorazione. Battersi per regolamentare il settore. Unire le forze per creare qualcosa che possa combattere queste società sostituendosi ad esse.

Anna Orlando

Anna Orlando

Maturità classica, laurea in giurisprudenza, avvocato da oltre 15 anni. L'interesse per la cucina e per il cibo nasce dall'aver osservato in silenzio prima una nonna e poi una mamma ai fornelli. L'essere...

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